Limmigrazione nella seconda decade del XXI secolo
Questi primi anni di inizio secolo risultano essere una sfida davvero impegnativa per il sindacato e per le condizioni di vita e di lavoro dei suoi iscritti, siano nati in Italia oppure no. La crisi economica colpisce pesantemente livelli di reddito e le condizioni di lavoro di milioni di persone, ma risulta doppiamente dura per chi ha il permesso di soggiorno strettamente legato al mantenimento di un rapporto di lavoro.
Sappiamo tutti che, secondo la legislazione attuale, un immigrato che resti disoccupato ha solo sei mesi di tempo per trovarne uno nuovo, dopo di che si trova davanti ad un bivio: abbandonare il progetto migratorio e ritornarsene sconfitto in patria assieme alla sua famiglia, oppure scivolare nella strada spesso senza uscita della clandestinità e del lavoro nero. La disoccupazione ha colpito anche il lavoro etnico e tempi ancora più complessi vengono dai rivolgimenti in atto nel Nord Africa e dalle possibili conseguenze in termini di esodo verso l’Europa e l’Italia punto di approdo più vicino. A maggior ragione è necessario riflettere sul fenomeno migratorio – alla luce delle sue complesse dinamiche – sull’apporto prezioso ma anche sui problemi che da esso vengono e a cui va data adeguata risposta. L’apporto di questi cinque milioni di nuovi cittadini è davvero prezioso per la nostra comunità: intanto va detto che il lavoro “etnico” produce l’11% del Pil italiano, oltre a pagare 12 miliardi di euro in tasse e contributi previdenziali. A questo vanno aggiunti i circa 9,3 miliardi di euro in rimesse verso i Paesi d’origine (secondo i dati che vengono dal Migration and Remittance Report 2011, della World Bank).
Scenari presenti e futuri
La demografia, lo sappiamo, non gioca a favore degli italiani: il nostro attuale tasso di natalità è di 1,4 figli per donna, contro un tasso di 2,4 per le donne straniere. E’ questo un oggettivo fattore di attrazione dell’immigrazione verso il nostro Paese. Un altro è la forte componente di sommerso della nostra economia (il Fondo Monetario ha stimato nel 2010 essere quasi il 27% di quella complessiva). I fattori “push” sono davanti agli occhi di tutti in questi giorni visibili nei grandi sconvolgimenti del Nord Africa, ed hanno a che vedere molto con i forti differenziali di sviluppo, la globalizzazione, il bisogno di democrazia e di benessere di quei popoli. Il combinato di questi (ed altri) fattori hanno portato la pressione migratoria ad essere tanto forte nell’ultimo decennio, da trasformare pesantemente il mercato del lavoro e della società italiana. Sono già i lavoratori stranieri a pagare una parte non piccola delle pensioni degli italiani. Oggi è già un fatto che senza gli immigrati, l’Italia avrebbe una popolazione inferiore ai 55 milioni di persone e in discesa. Una società, cioè, inesorabilmente in declino, i cui bisogni sono solo in parte compensati dalla presenza della cosiddetta cittadinanza etnica. Il nostro Paese ha trattato l’immigrazione sempre come un’emergenza ed ha subito la pressione migratoria che ha portato tra il 2000 ed il 2010 la popolazione straniera a quintuplicarsi (da 1 a cinque milioni). Purtroppo le restrizioni nella normativa dei flussi d’ingresso non sono state una garanzia di governo dell’immigrazione e – sommando i decreti flussi e le varie sanatorie – possiamo dire che una grande maggioranza degli stranieri oggi regolari sono entrati o sono rimasti in Italia in forma irregolare. La conseguenza di questi mutamenti, in corso da tempo ed accelerati negli ultimi due lustri, è stata una progressiva inesorabile trasformazione nella composizione del mercato del lavoro italiano. Secondo recenti dati Inail, dal 2000 al 2010 il 16% dei nuovi rapporti di lavoro avviati, sul totale nazionale, riguardava cittadini stranieri. Quota salita al 19% nel periodo che va da gennaio 2009 al 30 giugno 2010 (pari a 2,7 milioni – 1,5 milioni uomini, 1,2 milioni donne). Oggi in Italia, secondo dati Inail, esistono circa 3,4 milioni di stranieri assicurati, cifra che equivale al 13,6% del totale degli occupati. Vi sono settori produttivi dove la presenza immigrata (dalla UE e dai Paesi Terzi) è aumentata drammaticamente con punte del 40% in agricoltura e edilizia, mentre in settori come l’assistenza alla persona oltre l’80% del personale è ormai proveniente da Paesi esteri. Anche il comparto del commercio e dei servizi registra da tempo una crescita esponenziale del lavoro etnico. Oggi certo la crisi economica ha portato ad un rallentamento dei flussi d’ingresso, ma la presenza di immigrazione irregolare risulta essere ancora molto alta. Lo testimonia il fatto che nel 2009 quasi 300 mila persone hanno aderito alla procedura di emersione riservata al lavoro domestico, mentre nel recente decreto flussi sono state presentate quasi 420 mila domande (che sappiamo bene riguardano persone che già vivono e lavorano qui irregolarmente). Secondo stime prudenziali la media di presenza irregolare si aggirerebbe intorno al mezzo milione di persone, in quanto i flussi di overstayers nel nostro Paese continuano malgrado la crisi economica. A parere di molti la legge Bossi – Fini, ed ancor più la legge 94 del 2009 (pacchetto sicurezza) non sono servite a governare il fenomeno dei flussi. Anzi: la durezza delle norme, il blocco dei flussi negli anni 2009 e 2010, la difficoltà oggettiva di ingresso legale in Italia per lavoro, hanno finito per ingigantire il fenomeno dell’immigrazione irregolare, purtroppo funzionale all’economia sommersa che di questo vive e prospera. La durezza delle norme, è il nostro parere, è solo servita a deteriorare le condizioni di lavoro e di vita di migliaia di stranieri, lasciando spazio a forme di sfruttamento anche gravi, come ben testimoniano situazioni estreme nell’agricoltura, ma anche il numero eccessivo di incidenti sul lavoro che hanno coinvolto stranieri in settori come le costruzioni (nel 2009 il 16,4% degli infortuni sul lavoro ha riguardato gli immigrati), nonché l’imponderabile mondo dei servizi alla persona, dove non sono infrequenti gravi episodi di mobbing, sequestro dei documenti personali o peggio.
Minor fabbisogno di manodopera?
Secondo uno studio proposto recentemente dal Ministero del lavoro, a causa della crisi economica, per alcuni anni i flussi sarebbero destinati a diminuire drasticamente. Queste le stime: dal lato dell’offerta si prevede tra il 2010 e il 2020 una diminuzione della popolazione in età attiva (occupati più disoccupati) del 7%: con una discesa dagli attuali 24 milioni e 970 mila fino ad un valore stimato nel 2020 di 23 milioni e 257 mila persone. La sola demografia porterebbe ad un bisogno aggiuntivo di occupazione medio annuo di 170 mila lavoratori (necessariamente stranieri). Considerata la fase di crisi, comunque, il Ministero del Lavoro prevede che il fabbisogno aggiuntivo medio potrebbe scendere fino a 100 mila persone l’anno fino al 2015; mentre nel periodo 2016-2020 la richiesta aggiuntiva annua salirebbe a quota 260 mila. Ci sarebbe dunque la necessità e, forse, l’opportunità di ripensare seriamente la normativa sull’immigrazione, costruendo un meccanismo fluido basato su un effettivo matching tra domanda ed offerta di lavoro, con l’attuazione di percorsi efficaci di integrazione e di incontro tra culture diverse; condizione necessaria anche per evitare i crescenti episodi di razzismo e xenofobia, nonché le molteplici discriminazioni cui sono spesso sottoposti migliaia di stranieri. Sappiamo che questa è un’esigenza sentita da una gran parte della società italiana e dalla stessa politica che si interroga, anche alla luce della crisi economica e – più recentemente – all’impatto potenziale che può avere la crisi nel Mediterraneo, se non vi possa essere un ripensamento più generale sulla politica da adottare in materia di immigrazione e se, accanto alla necessaria attenzione alla sicurezza, non si debba accompagnare una maggiore comprensione sulla complessità del fenomeno migratorio, condizione sine qua non per adottare misure efficaci di governo dello stesso e strumenti adatti ad aiutare la necessaria integrazione.
Immigrazione per lavoro e crisi economica
Vediamo cosa sta accadendo in Italia a livello di mercato del lavoro:
Nei cinque anni precedenti la crisi economica (tra 2003 e 2008) quasi tutti i Paesi europei si sono caratterizzati per un aumento sostenuto dell’occupazione straniera. In Italia, secondo dati Inail, esistono oggi circa 3,4 milioni di stranieri assicurati. Per anni la crescita di manodopera etnica è stata esponenziale, ma la crisi economica ha visto nel 2009 – 2010 un’inversione di tendenza della crescita ed un numero di disoccupati stranieri arrivato a 104 mila unità. A questi vanno aggiunti 213 mila lavoratori stranieri inattivi. La crisi è visibile anche sul fronte dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Infatti, tra il 2009 ed il 2010, la cassa integrazione è risultata in fortissima crescita anche per loro; mentre sul fronte dei beneficiari di indennità di mobilità e di disoccupazione (concesse a seguito del licenziamento del lavoratore) registriamo tra gli stranieri una crescita nell’uso di questo ammortizzatore sociale nel 2009 (+ 28,9%) a fronte di una crescita complessiva del 9,6%. Per quanto riguarda la disoccupazione (non agricola), l’aumento dei percettori stranieri è risultato nello stesso anno del 65,4% (italiani + 45,9%).
Imprenditori stranieri in crescita
La situazione di crisi ed il suo impatto sul mercato del lavoro, appare in parte compensata da una migliore performance registrata sul fronte dell’imprenditoria etnica. Nel 2010 si sono contati 628.221 imprenditori stranieri, una presenza in forte crescita che rappresenta ormai il 6,5% del totale degli imprenditori in Italia. La crescita degli stranieri, rispetto il 2009, è stata di 29.185 aziende(+4,9%). Tutto ciò a fronte di una perdita di oltre 31.600 imprenditori italiani (-0,4%). I dati sono della Fondazione Moressa. L’aumento di imprenditori stranieri del 2010 è riuscito a compensare solo in parte la riduzione di imprese italiane. Il gap rispetto al 2009, infatti, vede la perdita di oltre 60 mila unità produttive italiane. Tra i settori nei quali gli imprenditori stranieri sembrano essere più presenti (come commercio, costruzioni e manifattura) la tendenza nell’ultimo anno è stata quella di un loro aumento, a fronte di un calo della componente italiana.
Stipendi e condizioni di lavoro, un gap da colmare
Le condizioni di debolezza strutturale dei lavoratori stranieri, alla luce della normativa in vigore, finisce in qualche modo per pesare sulla qualità ed il livello di remunerazione dell’occupazione stessa. Secondo la Fondazione Moressa, nel 2009 gli stipendi dei lavoratori stranieri sono risultati in media del 23% inferiori a quelli dei lavoratori italiani, a parità di mansione. Largamente sottoutilizzate, inoltre, risultano le professionalità degli stranieri conseguite all’estero. Secondo uno studio dell’Istat del 2009, solo il 4,6% del totale degli occupati non italiani che avevano conseguito all’estero il titolo di studio, risultava in quell’anno aver terminato un percorso di riconoscimento dello stesso. Il risultato appare tanto più significativo dato che, almeno in linea teorica, questo riconoscimento rappresenta una condizione necessaria (anche se non sufficiente) a ottenere un’occupazione corrispondente ai livelli di educazione raggiunti nel paese di origine. La mancata richiesta del riconoscimento del titolo da parte gli stranieri va secondo Istat attribuita principalmente alla loro concentrazione soprattutto nei lavori meno qualificati, per i quali esso non è necessario. Esistono poi condizioni oggettivamente discriminatorie che influiscono sia sulla possibilità di accesso al lavoro, sulla qualità e quantità remunerata, sia sui percorsi di carriera che per gli stranieri appaiono più difficili rispetto ai loro colleghi italiani. E questo, malgrado le normative anti discriminazioni in vigore e la pregevole attività di UNAR. Intanto, per uno straniero, è vietato l’accesso al pubblico impiego. Come già detto, la difficoltà a farsi riconoscere un titolo conseguito all’estero li costringe a lavorare in alcuni settori ed in mansioni oggettivamente meno qualificate e meno remunerate. C’è poi la difficoltà di accesso al lavoro, limitata dal colore della pelle o dall’accento parlato. Non è un mistero che le chance di assunzione vengono condizionate da questi fattori, sia pur difficilmente comprovabili. Lo stesso trattamento previdenziale prevede delle differenze rispetto a quello riservato agli italiani, cosa che andrebbe assolutamente corretta. Ma lo svantaggio maggiore viene proprio dagli effetti della normativa sulle condizioni di lavoro e di vita. Il fatto che il permesso sia strettamente legato al lavoro, rende debole l’immigrato nella contrattazione con il suo datore. E spesso egli rinuncia a richieste salariali o di miglioramento di carriera, in cambio della certezza di rinnovo del permesso di soggiorno.
Le proposte del sindacato
Il sindacato, e la UIL, sono convinti che l’attuale normativa sull’immigrazione vada radicalmente riformata. Per fare questo, però, c’è bisogno di raccogliere necessariamente consenso tra tutte le parti politiche interessate, pena l’impossibilità ottenere cambiamenti ed – al contrario – il rischio di subire peggioramenti normativi dettati dall’emotività pubblica e gravi fatti di cronaca (pacchetto sicurezza docet). La riforma va dunque fatta per gradi. Intanto ci sono da applicare due direttive europee importanti: la 2008/CE/115 (cosiddetta sui rimpatri) già in vigore da dicembre 2010 anche se non ratificata dal governo italiano; la 2009/CE/52 (norme e sanzioni per i datori di lavoro che impiegato stranieri irregolarmente). La direttiva 115 prevede che – prima di procedere all’espulsione di un immigrato irregolare – lo Stato debba necessariamente offrire la possibilità di un ritorno volontario assistito. Inoltre, la nuova normativa considera la detenzione di un clandestino presso i CIE una procedura da usarsi solo in casi estremi. E’ evidente che tale normativa contrasta con il reato di immigrazione clandestina e costringerà inevitabilmente l’Esecutivo a modificare la legge n. 94 del 2009. La direttiva 52, inoltre, è importante perché – oltre ad inasprire le sanzioni contro chi sfrutti un immigrato irregolare – darebbe la possibilità a quest’ultimo di denunciare il proprio datore di lavoro, se questi non vuole regolarizzarlo, ottenendo in cambio un permesso di soggiorno a carattere umanitario. E’ evidente che, senza correttivi, l’impatto della direttiva sarebbe punitivo anche nei confronti di chi vorrebbe sanare le situazioni irregolari, ma non può farlo a causa della normativa. Stante la situazione il sindacato ha proposto ai datori di lavoro ed al Governo di agire su tre piani:
a) Considerare le indennità di mobilità e disoccupazione reddito valido ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno. Un immigrato che perda il lavoro, dunque, dovrà poter godere prima di questi ammortizzatori sociali. Solo dopo scatterebbe il permesso di soggiorno di sei mesi per ricerca di occupazione. L’obiettivo è dare all’immigrato che perda il lavoro, più tempo per cercare un nuovo impiego e non finire nella trappola del lavoro nero;
b) Estendere a tutte le categorie produttive la procedura di emersione già concessa al lavoro domestico nel 2009. Questo potrebbe avvenire anche con procedure di valutazione individuale, per avere la garanzia che esista davvero un datore ed un rapporto di lavoro. Questo permetterebbe di svuotare in buona parte il bacino del lavoro nero, prima che entri in vigore la direttiva europea n.52.
c) Estendere l’applicazione dell’articolo 18 del TU come strumento permanente ed efficace di lotta al lavoro nero, al caporalato e allo sfruttamento, prevedendo la possibilità della vittima, di denunciare i propri sfruttatori, senza rischiare l’espulsione.
Su questi obiettivi sindacati ed imprenditori stanno lavorando ad un avviso comune da presentare a governo ed istituzioni, con una già verificata disponibilità al dialogo mostrata recentemente dal dipartimento immigrazione del Ministero del Lavoro.
Scenari presenti e futuri
La demografia, lo sappiamo, non gioca a favore degli italiani: il nostro attuale tasso di natalità è di 1,4 figli per donna, contro un tasso di 2,4 per le donne straniere. E’ questo un oggettivo fattore di attrazione dell’immigrazione verso il nostro Paese. Un altro è la forte componente di sommerso della nostra economia (il Fondo Monetario ha stimato nel 2010 essere quasi il 27% di quella complessiva). I fattori “push” sono davanti agli occhi di tutti in questi giorni visibili nei grandi sconvolgimenti del Nord Africa, ed hanno a che vedere molto con i forti differenziali di sviluppo, la globalizzazione, il bisogno di democrazia e di benessere di quei popoli. Il combinato di questi (ed altri) fattori hanno portato la pressione migratoria ad essere tanto forte nell’ultimo decennio, da trasformare pesantemente il mercato del lavoro e della società italiana. Sono già i lavoratori stranieri a pagare una parte non piccola delle pensioni degli italiani. Oggi è già un fatto che senza gli immigrati, l’Italia avrebbe una popolazione inferiore ai 55 milioni di persone e in discesa. Una società, cioè, inesorabilmente in declino, i cui bisogni sono solo in parte compensati dalla presenza della cosiddetta cittadinanza etnica. Il nostro Paese ha trattato l’immigrazione sempre come un’emergenza ed ha subito la pressione migratoria che ha portato tra il 2000 ed il 2010 la popolazione straniera a quintuplicarsi (da 1 a cinque milioni). Purtroppo le restrizioni nella normativa dei flussi d’ingresso non sono state una garanzia di governo dell’immigrazione e – sommando i decreti flussi e le varie sanatorie – possiamo dire che una grande maggioranza degli stranieri oggi regolari sono entrati o sono rimasti in Italia in forma irregolare. La conseguenza di questi mutamenti, in corso da tempo ed accelerati negli ultimi due lustri, è stata una progressiva inesorabile trasformazione nella composizione del mercato del lavoro italiano. Secondo recenti dati Inail, dal 2000 al 2010 il 16% dei nuovi rapporti di lavoro avviati, sul totale nazionale, riguardava cittadini stranieri. Quota salita al 19% nel periodo che va da gennaio 2009 al 30 giugno 2010 (pari a 2,7 milioni – 1,5 milioni uomini, 1,2 milioni donne). Oggi in Italia, secondo dati Inail, esistono circa 3,4 milioni di stranieri assicurati, cifra che equivale al 13,6% del totale degli occupati. Vi sono settori produttivi dove la presenza immigrata (dalla UE e dai Paesi Terzi) è aumentata drammaticamente con punte del 40% in agricoltura e edilizia, mentre in settori come l’assistenza alla persona oltre l’80% del personale è ormai proveniente da Paesi esteri. Anche il comparto del commercio e dei servizi registra da tempo una crescita esponenziale del lavoro etnico. Oggi certo la crisi economica ha portato ad un rallentamento dei flussi d’ingresso, ma la presenza di immigrazione irregolare risulta essere ancora molto alta. Lo testimonia il fatto che nel 2009 quasi 300 mila persone hanno aderito alla procedura di emersione riservata al lavoro domestico, mentre nel recente decreto flussi sono state presentate quasi 420 mila domande (che sappiamo bene riguardano persone che già vivono e lavorano qui irregolarmente). Secondo stime prudenziali la media di presenza irregolare si aggirerebbe intorno al mezzo milione di persone, in quanto i flussi di overstayers nel nostro Paese continuano malgrado la crisi economica. A parere di molti la legge Bossi – Fini, ed ancor più la legge 94 del 2009 (pacchetto sicurezza) non sono servite a governare il fenomeno dei flussi. Anzi: la durezza delle norme, il blocco dei flussi negli anni 2009 e 2010, la difficoltà oggettiva di ingresso legale in Italia per lavoro, hanno finito per ingigantire il fenomeno dell’immigrazione irregolare, purtroppo funzionale all’economia sommersa che di questo vive e prospera. La durezza delle norme, è il nostro parere, è solo servita a deteriorare le condizioni di lavoro e di vita di migliaia di stranieri, lasciando spazio a forme di sfruttamento anche gravi, come ben testimoniano situazioni estreme nell’agricoltura, ma anche il numero eccessivo di incidenti sul lavoro che hanno coinvolto stranieri in settori come le costruzioni (nel 2009 il 16,4% degli infortuni sul lavoro ha riguardato gli immigrati), nonché l’imponderabile mondo dei servizi alla persona, dove non sono infrequenti gravi episodi di mobbing, sequestro dei documenti personali o peggio.
Minor fabbisogno di manodopera?
Secondo uno studio proposto recentemente dal Ministero del lavoro, a causa della crisi economica, per alcuni anni i flussi sarebbero destinati a diminuire drasticamente. Queste le stime: dal lato dell’offerta si prevede tra il 2010 e il 2020 una diminuzione della popolazione in età attiva (occupati più disoccupati) del 7%: con una discesa dagli attuali 24 milioni e 970 mila fino ad un valore stimato nel 2020 di 23 milioni e 257 mila persone. La sola demografia porterebbe ad un bisogno aggiuntivo di occupazione medio annuo di 170 mila lavoratori (necessariamente stranieri). Considerata la fase di crisi, comunque, il Ministero del Lavoro prevede che il fabbisogno aggiuntivo medio potrebbe scendere fino a 100 mila persone l’anno fino al 2015; mentre nel periodo 2016-2020 la richiesta aggiuntiva annua salirebbe a quota 260 mila. Ci sarebbe dunque la necessità e, forse, l’opportunità di ripensare seriamente la normativa sull’immigrazione, costruendo un meccanismo fluido basato su un effettivo matching tra domanda ed offerta di lavoro, con l’attuazione di percorsi efficaci di integrazione e di incontro tra culture diverse; condizione necessaria anche per evitare i crescenti episodi di razzismo e xenofobia, nonché le molteplici discriminazioni cui sono spesso sottoposti migliaia di stranieri. Sappiamo che questa è un’esigenza sentita da una gran parte della società italiana e dalla stessa politica che si interroga, anche alla luce della crisi economica e – più recentemente – all’impatto potenziale che può avere la crisi nel Mediterraneo, se non vi possa essere un ripensamento più generale sulla politica da adottare in materia di immigrazione e se, accanto alla necessaria attenzione alla sicurezza, non si debba accompagnare una maggiore comprensione sulla complessità del fenomeno migratorio, condizione sine qua non per adottare misure efficaci di governo dello stesso e strumenti adatti ad aiutare la necessaria integrazione.
Immigrazione per lavoro e crisi economica
Vediamo cosa sta accadendo in Italia a livello di mercato del lavoro:
Nei cinque anni precedenti la crisi economica (tra 2003 e 2008) quasi tutti i Paesi europei si sono caratterizzati per un aumento sostenuto dell’occupazione straniera. In Italia, secondo dati Inail, esistono oggi circa 3,4 milioni di stranieri assicurati. Per anni la crescita di manodopera etnica è stata esponenziale, ma la crisi economica ha visto nel 2009 – 2010 un’inversione di tendenza della crescita ed un numero di disoccupati stranieri arrivato a 104 mila unità. A questi vanno aggiunti 213 mila lavoratori stranieri inattivi. La crisi è visibile anche sul fronte dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Infatti, tra il 2009 ed il 2010, la cassa integrazione è risultata in fortissima crescita anche per loro; mentre sul fronte dei beneficiari di indennità di mobilità e di disoccupazione (concesse a seguito del licenziamento del lavoratore) registriamo tra gli stranieri una crescita nell’uso di questo ammortizzatore sociale nel 2009 (+ 28,9%) a fronte di una crescita complessiva del 9,6%. Per quanto riguarda la disoccupazione (non agricola), l’aumento dei percettori stranieri è risultato nello stesso anno del 65,4% (italiani + 45,9%).
Imprenditori stranieri in crescita
La situazione di crisi ed il suo impatto sul mercato del lavoro, appare in parte compensata da una migliore performance registrata sul fronte dell’imprenditoria etnica. Nel 2010 si sono contati 628.221 imprenditori stranieri, una presenza in forte crescita che rappresenta ormai il 6,5% del totale degli imprenditori in Italia. La crescita degli stranieri, rispetto il 2009, è stata di 29.185 aziende(+4,9%). Tutto ciò a fronte di una perdita di oltre 31.600 imprenditori italiani (-0,4%). I dati sono della Fondazione Moressa. L’aumento di imprenditori stranieri del 2010 è riuscito a compensare solo in parte la riduzione di imprese italiane. Il gap rispetto al 2009, infatti, vede la perdita di oltre 60 mila unità produttive italiane. Tra i settori nei quali gli imprenditori stranieri sembrano essere più presenti (come commercio, costruzioni e manifattura) la tendenza nell’ultimo anno è stata quella di un loro aumento, a fronte di un calo della componente italiana.
Stipendi e condizioni di lavoro, un gap da colmare
Le condizioni di debolezza strutturale dei lavoratori stranieri, alla luce della normativa in vigore, finisce in qualche modo per pesare sulla qualità ed il livello di remunerazione dell’occupazione stessa. Secondo la Fondazione Moressa, nel 2009 gli stipendi dei lavoratori stranieri sono risultati in media del 23% inferiori a quelli dei lavoratori italiani, a parità di mansione. Largamente sottoutilizzate, inoltre, risultano le professionalità degli stranieri conseguite all’estero. Secondo uno studio dell’Istat del 2009, solo il 4,6% del totale degli occupati non italiani che avevano conseguito all’estero il titolo di studio, risultava in quell’anno aver terminato un percorso di riconoscimento dello stesso. Il risultato appare tanto più significativo dato che, almeno in linea teorica, questo riconoscimento rappresenta una condizione necessaria (anche se non sufficiente) a ottenere un’occupazione corrispondente ai livelli di educazione raggiunti nel paese di origine. La mancata richiesta del riconoscimento del titolo da parte gli stranieri va secondo Istat attribuita principalmente alla loro concentrazione soprattutto nei lavori meno qualificati, per i quali esso non è necessario. Esistono poi condizioni oggettivamente discriminatorie che influiscono sia sulla possibilità di accesso al lavoro, sulla qualità e quantità remunerata, sia sui percorsi di carriera che per gli stranieri appaiono più difficili rispetto ai loro colleghi italiani. E questo, malgrado le normative anti discriminazioni in vigore e la pregevole attività di UNAR. Intanto, per uno straniero, è vietato l’accesso al pubblico impiego. Come già detto, la difficoltà a farsi riconoscere un titolo conseguito all’estero li costringe a lavorare in alcuni settori ed in mansioni oggettivamente meno qualificate e meno remunerate. C’è poi la difficoltà di accesso al lavoro, limitata dal colore della pelle o dall’accento parlato. Non è un mistero che le chance di assunzione vengono condizionate da questi fattori, sia pur difficilmente comprovabili. Lo stesso trattamento previdenziale prevede delle differenze rispetto a quello riservato agli italiani, cosa che andrebbe assolutamente corretta. Ma lo svantaggio maggiore viene proprio dagli effetti della normativa sulle condizioni di lavoro e di vita. Il fatto che il permesso sia strettamente legato al lavoro, rende debole l’immigrato nella contrattazione con il suo datore. E spesso egli rinuncia a richieste salariali o di miglioramento di carriera, in cambio della certezza di rinnovo del permesso di soggiorno.
Le proposte del sindacato
Il sindacato, e la UIL, sono convinti che l’attuale normativa sull’immigrazione vada radicalmente riformata. Per fare questo, però, c’è bisogno di raccogliere necessariamente consenso tra tutte le parti politiche interessate, pena l’impossibilità ottenere cambiamenti ed – al contrario – il rischio di subire peggioramenti normativi dettati dall’emotività pubblica e gravi fatti di cronaca (pacchetto sicurezza docet). La riforma va dunque fatta per gradi. Intanto ci sono da applicare due direttive europee importanti: la 2008/CE/115 (cosiddetta sui rimpatri) già in vigore da dicembre 2010 anche se non ratificata dal governo italiano; la 2009/CE/52 (norme e sanzioni per i datori di lavoro che impiegato stranieri irregolarmente). La direttiva 115 prevede che – prima di procedere all’espulsione di un immigrato irregolare – lo Stato debba necessariamente offrire la possibilità di un ritorno volontario assistito. Inoltre, la nuova normativa considera la detenzione di un clandestino presso i CIE una procedura da usarsi solo in casi estremi. E’ evidente che tale normativa contrasta con il reato di immigrazione clandestina e costringerà inevitabilmente l’Esecutivo a modificare la legge n. 94 del 2009. La direttiva 52, inoltre, è importante perché – oltre ad inasprire le sanzioni contro chi sfrutti un immigrato irregolare – darebbe la possibilità a quest’ultimo di denunciare il proprio datore di lavoro, se questi non vuole regolarizzarlo, ottenendo in cambio un permesso di soggiorno a carattere umanitario. E’ evidente che, senza correttivi, l’impatto della direttiva sarebbe punitivo anche nei confronti di chi vorrebbe sanare le situazioni irregolari, ma non può farlo a causa della normativa. Stante la situazione il sindacato ha proposto ai datori di lavoro ed al Governo di agire su tre piani:
a) Considerare le indennità di mobilità e disoccupazione reddito valido ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno. Un immigrato che perda il lavoro, dunque, dovrà poter godere prima di questi ammortizzatori sociali. Solo dopo scatterebbe il permesso di soggiorno di sei mesi per ricerca di occupazione. L’obiettivo è dare all’immigrato che perda il lavoro, più tempo per cercare un nuovo impiego e non finire nella trappola del lavoro nero;
b) Estendere a tutte le categorie produttive la procedura di emersione già concessa al lavoro domestico nel 2009. Questo potrebbe avvenire anche con procedure di valutazione individuale, per avere la garanzia che esista davvero un datore ed un rapporto di lavoro. Questo permetterebbe di svuotare in buona parte il bacino del lavoro nero, prima che entri in vigore la direttiva europea n.52.
c) Estendere l’applicazione dell’articolo 18 del TU come strumento permanente ed efficace di lotta al lavoro nero, al caporalato e allo sfruttamento, prevedendo la possibilità della vittima, di denunciare i propri sfruttatori, senza rischiare l’espulsione.
Su questi obiettivi sindacati ed imprenditori stanno lavorando ad un avviso comune da presentare a governo ed istituzioni, con una già verificata disponibilità al dialogo mostrata recentemente dal dipartimento immigrazione del Ministero del Lavoro.